La parabola della buona società italiana
Dal fascismo al cattolicesimo politico
Ricostruita attraverso la corrispondenza e i carteggi amorevolmente raccolti e commentati con sagacia da Francesco Mancini, è pubblicata in questi giorni da Solfanelli in Chieti (con una prestigiosa prefazione di Lorenzo Ornaghi) Già vinti nel cuore, la storia dell'illustre famiglia abruzzese svela, in modo esemplare, un evento censurato e rimosso dalla cultura al potere: il cammino della maggioranza cattolica dal popolarismo al fascismo e dal fascismo alla democrazia cristiana.
La vicenda dei Mancini, puntuale frammento della grande storia italiana, rivela i motivi dell'inevitabile divorzio delle famiglie cattoliche dal fascismo perdente, mentre riconosce la loro fedeltà - nella rottura obbligata dal disastro bellico - ai valori promossi e/o riconosciuti dal regime di Mussolini: la fede in Dio, la sacra dedizione alla famiglia, l'ardente amore per la Patria.
Francesco Mancini, a metà degli anni Trenta, è podestà di Serramonacesca, un paese della provincia di Chieti. Il curatore dell'epistolario di famiglia, rammenta che il nonno "d'impronta cattolica, aveva avuto vaghe simpatie popolari". E giustifica la successiva adesione al fascismo scrivendo che "E' da ricordare che nel pescarese era fortissima l'influenza del ministro Acerbo, che rappresentava l'ala più moderata, avversa allo squadrismo del regime".
La giustificazione addotta non è infondata, dal momento che Giacomo Acerbo, illustre interprete dell'amor di patria, nel dicembre del 1922, presentò a Mussolini il filosofo cattolico Francesco Orestano, che proprio in quella circostanza sollecitò e ottenne dal capo del governo l'incarico di avviare i preliminari della trattativa per il Concordato con la Santa Sede. (Al riguardo cfr.: F. Orestano, Il mio concordato, edito a cura dell'assessore alla cultura della Provincia di Palermo, Tommaso Romano, nel 2003)
Contrario alla logica razzista, nel 1942 Acerbo fu apprezzato da Pio XII quale autore di un decreto legge, che soddisfaceva le richieste della Santa Sede attenuando notevolmente il rigore delle ingiuste leggi del 1938.
Ispirata dall'autorevole esempio di Acerbo, durante il Ventennio la famiglia Mancini si conformò alla maggioranza dei cattolici italiani, che diedero il consenso al regime di Mussolini, l'uomo inviato dalla Provvidenza.
Solamente il figlio maggiore di Francesco Mancini, Antonio, si sottrasse all'influenza della dominante cultura fascista.
Il curatore dell'epistolario, trascurando la professione di fede cattolica resa da Giani e Pallotta, gli esponenti delle avanguardie fedeli a Benito e Arnaldo Mussolini, afferma che la freddezza di Antonio (suo padre) fu conseguenza della refrattarietà all'irrazionalismo fascista e all'idea corporativa.
Ad ogni modo, i tre fratelli Mancini militarono, a vario titolo e con diverso animo, nelle organizzazioni del regime. Uno di loro, Armando, studente di filosofia, partecipa addirittura ai Littoriali.
Arruolati nell'esercito i fratelli partecipano con entusiasmo alla seconda guerra mondiale. La loro fede sopravvisse ai rovesci dell'esercito italiano. Il maggiore dei tre, Gino, in una lettera dal fronte, spedita in data 11 aprile 1943, scrive ancora: "Il nostro morale è più alto che mai. Il Signore non mancherà di premiare la nostra fede, il nostro lavoro, l'entusiasmo con cui serviamo la Patria diletta". Antonio, il più tiepido e il più sfiduciato, nel luglio del 1943 dichiara tuttavia che "Bisogna lavorare ed aver fiducia. Noi più di prima fermi nella nostra volontà di resistere. ... Abbiamo una fede illimitata nel destino della nostra Patria". Il più giovane, Armando, esorta i fratelli a "tener alta la fiducia nelle nostre armi e la necessità, il diritto alla vittoria".
Quest'ultima lettera, spedita dall'isola di Coo nell'Egeo è datata 29 luglio1943. E' la vigilia della tragedia consumata l'otto di settembre: la morte della Patria, che fa sentire gli italiani vinti nel cuore. Il tiepido Antonio scrive: "Che schifo sentirsi vinti così".
Nel giro di poche ore la notizia della resa agli alleati dissolve l'esercito italiano. Privi di un comando i soldati o s'imboscano o fuggono incalzati dai tedeschi o si arrendono all'ex alleato. Nel suo diario Antonio scrive: "Non avrei mai creduto che tanti uomini potessero in quattro giorni diventare tanto vigliacchi".
I pochi reparti che, interpretando le vaghe indicazioni di Pietro Badoglio, si oppongono eroicamente ai tedeschi sono travolti dalla furia dell'alleato tradito. Antonio, tenente di artiglieria in Corsica, attraversa la marea dei disertori in fuga disordinata e, con un pugno di uomini fedeli alla consegna, si oppone efficacemente ai tedeschi. Gino, in regolare licenza si trova a casa, e non è coinvolto nella tragedia. Ma di Armando, che obbedisce all'ordine di resistere ai tedeschi si perde ogni traccia. Sembra certo che egli cadde vittima dei tedeschi, ai quali la guarnigione di Rodi si era eroicamente opposta.
Sottoscritto nell'umiliante armistizio breve dell'otto settembre, l'esito disgraziato della guerra ha dissolto l'unità degli italiani e, facendo retrocedere la storia al sanguinario 1919, ha suscitato la guerra civile socialcomunista e l'arroccamento dei fascisti irriducibili nella disperata Rsi.
I cattolici e tra loro il capo della famiglia Mancini e i suoi cinque figli, avevano trovato un ragionevole accordo tra la vera fede, l'onesto bene economico e il regime fascista. L'otto settembre distrusse il loro solido equilibrio politico e religioso.
L'epistolario familiare dei Manici, ciò non ostante, attesta una ferma adesione agli ideali del patriottismo, vero è che i due ragazzi sopravvissuti, Gino e Antonio, che avevano partecipato con entusiasmo alla guerra, si trovarono improvvisamente sospesi tra lo sconcerto e il disfattismo della folla solitaria, la devastante insorgenza dei comunista e l'assoluta inefficienza del potere badogliano.
Di qui la loro cocente delusione e la loro scelta di affidarsi al partito democristiano, ritenuto emanazione dell'orientamento conservatore prevalente nella Segreteria di Stato vaticana.
Nel 1944 Gino, maturando una decisione non contrastante con la logica del partito romano, aderisce alla Dc. Si allontana dal fascismo senza aderire all'antifascismo professato dai socialcomunisti. Poco dopo lo segue Antonio, che fa valere le sue ingenti qualità, salendo nella gerarchia del partito fino a diventare esponente di primo piano e apprezzato sindaco di Pescara.
La lettura dei documenti familiari dei Mancini, in definitiva, è consigliata quale sussidio alla formazione di un cattolicesimo politico liberato dalle incapacitanti ossessioni destate dalla sinistrorsa filosofia di Maritain e dall'antifascismo sbandierato dai sessantottini per svigorire e abbattere la resistenza italiana al disordine.
Piero Vassallo
Nessun commento:
Posta un commento